Origini della Parrocchia
La Parrocchia
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Chiesa parrocchiale di Nostra Signora delle Grazie
1. L’area in cui sorge l’edificio
La chiesa parrocchiale di Nostra Signora delle Grazie in Decimoputzu si erge nel centro storico del paese, nella parte alta dell’abitato, distante poche decine di metri dall’ex edificio scolastico (1933) e dalla chiesa romanica di San Giorgio (VII-XI sec.).
Planimetria generale del progetto Edificio scolastico. Ing. Severino Bellisai, 1932.
Edificio scolastico
Parrocchia N.S. delle Grazie
Chiesa di San Giorgio, Anni 60/70 del Novecento.
Tutta l’area retrostante la parrocchiale, denominata “colle di San Giorgio”, rimasta immutata da millenni per la sacralità dei luoghi, solo a partire dagli anni Trenta del secolo scorso, è stata oggetto di opere di urbanizzazione per la realizzazione di edifici scolastici e di fabbricati ed impianti sportivi ad uso pubblico.
Proprio i lavori di sbancamento per la realizzazione della palestra comunale del 1987, sul pendio orientale del colle, hanno messo in luce una domus de janas formata da un corridoio e due celle disposte in asse. Gli interventi di indagine archeologica effettuati dal prof. Giovanni Ugas, hanno restituito, su 14 stratigrafie, 540 reperti e 198 crani pertinenti a scheletri di inumati, ma si presume vi fossero almeno 250 sepolture.
La tomba a grotticella artificiale fu utilizzata per almeno 1500 anni come attestano i numerosi reperti ceramici ed in rame ricuperati nello scavo e riconducibili alle culture prenuragiche di San Ciriaco, Ozieri I e II, Monte Claro, Campaniforme, Bonnanaro A1 e A2 (Facies S. Iroxi) (UGAS, 1990).
Di straordinario interesse è il corredo bellico in rame arsenicato, composto da tredici spade e sei pugnali, che allo stato delle ricerche costituiscono i primi esempi di armi in rame dell’isola e forse dell’intero mediterraneo occidentale (UGAS, 1990).
Le ulteriori indagini archeologiche effettuate nel corso dei lavori di restauro della vicina chiesa di San Giorgio (1989) hanno consentito di rilevare la frequentazione del sito, senza soluzione di continuità, dal Neolitico antico sino ai giorni nostri, con stratificazioni e sequenze culturali di età prenuragica, (nuragica ?), romana, paleocristiana, vandalica, bizantina e medioevale (BASCIU, 1997, MUREDDU, 2002).
Sino agli anni Cinquanta del Novecento l’area prospiciente la facciata della parrocchiale era chiusa da un recinto, is mureddas, che ne delimitavano il sagrato, mentre ai prospetti laterali era attiguo il cimitero, di cui si ha notizia a decorrere dal XVI secolo. Il cimitero fu utilizzato sino alla prima metà del Novecento, e comunque sino a quando fu realizzato l’attuale nuovo Camposanto in via Villaspeciosa.
La chiesa parrocchiale, anni Cinquanta del ‘900.
La Chiesa parrocchiale, 1967-70.
La parrocchia attraverso i documenti d’archivio (XIV-XIX sec.)
Allo stato delle ricerche, la prima notizia sulla presenza di una chiesa, verosimilmente con funzioni di parrocchia e connessa al toponimo Decimo Popus, seppure priva dell’indicazione del titolo, risale al 1341 e figura nelle Rationes Decimarum Italiae – Sardinia, ovvero i codici delle Collettorie dell’Archivio Vaticano che riportano le decime e i censi versati dal clero locale alla Sede apostolica per i secoli XIII e XIV. Per quanto concerne la Diocesi di Cagliari, nella scheda n. 512 del registro contabile, è annotato che il giorno 21 del mese di luglio [1341], Bernardo Pereri, a nome di Johanne de Turnu, rettore della chiesa di Decimo Popus, cede la somma di lire 5 alfonsini e 15 soldi (SELLA 1945).
L’unica chiesa, di cui al momento si ha contezza documentaria nel Trecento, nel territorio putzese è quella di San Basilio, indicata nelle carte conservate nell’Archivio della Corona d’Aragona, note come le Taxationis benefficiorum Regni Sardinie (1363), e nell’Inventario delle Rendite ecclesiastiche cagliaritane della Mensa arcivescovile di Cagliari del 1365.
Le attività della parrocchia nella villa di Decimoputzu, senza l’indicazione del titolo, sono più volte documentate negli anni 1479-85 in diverse carte che si conservano nell’Archivio di Stato di Cagliari (Fondo Barbens).
Tra queste è di notevole importanza la notizia riportata nella carta del 2 agosto 1481, dove Petrus Rois de Moros, canonico, decano e vicario generale dell'arcivescovo di Cagliari, comunica ai fedeli dell'arcivescovado cagliaritano e del vescovado doliense, che Anthiogus Lotxi, della villa di Decimoputzu, mosso da pia devozione, intende riedificare la chiesa di San Pietro, e ordina di contribuire con offerte in denaro, promettendo 40 giorni di indulgenza.
Si tratta della prima attestazione certa della chiesa di San Pietro nella villa di Decimoputzu, cui seguiranno ulteriori menzioni nel corso dei secoli successivi sino alla sua demolizione avvenuta alla fine del Settecento. In particolare questa informazione ci consente di distinguere la chiesa parrocchiale dalla chiesa di San Pietro, escludendo l’ipotesi che quest’ultima sia stata demolita per far posto all’attuale parrocchia.
Dall’esame dei documenti sinora esaminati non si riesce a cogliere il titolo della parrocchia, né figura una qualche descrizione sul monumento, e pertanto ancora non sappiamo se alla fine del Quattrocento, la chiesa parrocchiale della villa di Decimoputzu, richiamata nei documenti, sia riconducibile al titolo e all’edificio attuale.
A partire dal 1560 si ha la conferma di una parrocchia nella villa di Decimoputzu sotto l’invocazione di Santa Maria, come attestano le informazioni riportate nei Quinque Librorum o Quinque Libri (Cinque Libri, registri dei battesimi, cresime, matrimoni, cura delle anime e morti,) conservati nell’Archivio Storico Diocesano di Cagliari.
Joana (Giovanna), figlia di Nanni Piras e Joana Cossu è il primo nominativo riportato nel registro dei battesimi in data 24 novembre 1560, padrini sono Sisinnio Garau e Angela Escana; amministra il battesimo il curato Antonio Suredda.
Informazioni di sicuro interesse, nell’ambito della presente ricerca, sono contenute nell’elenco dei morti, in quanto viene specificato, per ciascuno defunto, oltre al nominativo, il luogo di ricezione dei sacramenti (è citata sempre la chiesa parrocchiale di Santa Maria), se effettua o meno testamento e il sito della sepoltura.
Si rileva che dalla data di cui si ha la prima annotazione dei defunti, ovvero dal 1562, questi vengono seppelliti nel cimitero di San Giorgio; solo dal 1580 troviamo per la prima volta un defunto verosimilmente sepolto (dentro ?) la parrocchia di Santa Maria en sepultura nova.
Il fatto che essendo quindi più antico il cimitero annesso alla chiesa di San Giorgio, farebbe arguire che la prima parrocchia del paese fosse proprio San Giorgio. Solo nella seconda metà Cinquecento inizia ad essere utilizzato sporadicamente il nuovo cimitero di Santa Maria Parrocchia, in alternativa al frequente utilizzo del cimitero di San Giorgio.
La scelta del sito della sepoltura del defunto, tra San Giorgio o Santa Maria, è correlato da una serie di fattori connessi in primis ad eventuali volontà testamentarie, ovvero a richieste di parenti, nonché dalle eventuali disponibilità economiche ed è il curato pertanto che decide quale cimitero utilizzare per la sepoltura.
Da notare che la maggior parte dei defunti non fa testamento por esse pobre (perchè povera). Dall’esame dei documenti si rileva che fanno eccezione pochi privilegiati benestanti, i quali, in cambio di lasciti testamentari, chiedono specificatamente di essere sepolti all’interno della chiesa parrocchiale. Così come si riscontrano in questi anni, dei casi, in cui i defunti vengo sepolti, evidentemente vantando diritti di giurispratronato, nella cappella di san Nicola dentro la chiesa di san Giorgio, come figura per il defunto Matzeu Lepori.
Tra i personaggi di rango del paese si evidenzia una certa Jona Xicu (Giovanna Cicu) che nel testamento del 20 giugno 1589, manifesta la propria volontà; chiede di essere seppellita dentro la chiesa parrocchiale di Santa Maria, che vengano celebrate ogni anno tre messe cantate e due parlate. Dispone quindi dei suoi beni, destinando una parte di questi a ciascuna delle chiese di San Giorgio, di San Pietro, di San Michele e di Santa Sofia; altra parte dei beni è destinata, tra gli altri, alla cappella di san Nicola della chiesa di san Giorgio. Il documento si rivela di estrema importanza perché attesta, in quella data, la presenza degli edifici religiosi su menzionati dentro l’abitato, nonchè ipotizza il diritto di giurispatronato della famiglia Cicu-Lepori sulla cappella di San Nicola nella prospiciente chiesa di San Giorgio.
Anche nel testamento di Antonia Cicu dell’8 settembre 1598, probabile parente di Giovanna (sorella?), figura la richiesta di essere seppellita dentro la chiesa parrocchiale. Dispone che dei suoi beni si faccia una corona d’argento per il simulacro di Nostra Signora del Rosario e lascia 100 lire perché si carichi a censo e ogni sabato si celebri una messa semplice nella cappella di Nostra Signora del Rosario della chiesa parrocchiale. Come il documento precedente anche questo si rivela di estrema importanza, in quanto attesta per la prima volta l’esistenza della cappella della Vergine del Rosario nel nostro edificio alla fine del Cinquecento, lasciando intendere, già da quel periodo, l’esistenza della Confraternita della Madonna del Rosario, di cui si avrà ampia documentazione nei secoli successivi.
Nonostante le informazioni su riportate ancora non abbiamo nessun riscontro documentale sull’impianto e sulla conformazione dell’edificio parrocchiale. Nella relazione redatta nel 1577 relativa alla visita pastorale dell’Arcivescovo di Cagliari Francesco Perez nella villa di decimo putzo nella ecclesia sotto l’invocazione Santa Maria oltre a darci l’elenco degli arredi liturgici, paramenti, argenti, etc. possiamo desumere una prima descrizione della parrocchia, costituita dalla cappella prespiteriale (capilla mayor), dotata di altare maggiore (altar mayor), con il retablo e la statua della Vergine, e le cappelle laterali di San Basilio, San Sebastiano, San Giorgio e San Nicola(?).
Data questa descrizione è possibile ipotizzare che la costruzione dell’attuale edificio parrocchiale abbia avuto avvio tra la fine del Quattrocento ed inizi del Cinquecento e si sia protratta fino alla seconda metà dello stesso secolo. Osservando la sua struttura appare che l’impianto tardo-gotico di matrice catalana o mediterranea, inizialmente prevedeva la navata unica rettangolare a due campate, cappella presbiteriale più bassa e più stretta dell’aula e forse due cappelle per ciascun lato. Successivamente, in base alle disponibilità finanziarie e all’esigenza di poter disporre di altri ambienti, sono state aggiunte altre due cappelle laterali.
Dall’esame delle successive relazioni sulle visite pastorali possiamo quindi riassumere l’ipotesi che alla fine del Cinquecento la chiesa parrocchiale, a cui sono contigui due cimiteri, quello di san Giorgio e quello di Santa Maria, ha l’aula conclusa dalla capilla mayor con al centro il retablo, almeno due cappelle con altari e retabli ed il campanile con due campane.
L’arcivescovo di Cagliari Francesco Desquiveil effettua la visita pastorale nella nostra parrocchia sotto l’invocazione di Santa Maria, nel 1607 e nel 1613, dove alla fine della messa pubblica un editto in lingua sarda; visiterà ancora la nostra parrocchia anche nel 1619 e nel 1622.
Il 28 aprile 1635 è l’arcivescovo Ambrogio Manchin ad effettuare la visita pastorale, la cui relazione riporta, tra gli altri, che il prelato, dopo aver accertato lo stato del Santissimo nella capilla mayor, visitò le cappelle di Nostra Signora del Rosario, la cappella di San Sebastiano e la cappella di San Basilio. Successivamente è l’arcivescovo di Cagliari Bernardo De la Cabra a visitare la nostra chiesa e nel decreto del 10 febbraio 1645, tra le disposizioni emanate alla parrocchia di Santa Maria, è citata la cappella San Francesco.
L’atto del 9 agosto 1647 riferisce che il pittore e sculture sardo Giovani Angelo Puxeddu si accorda con Sisinnio Collu di Decimoputzu per la realizzazione di una statua di San Michele, alta cinque palmi grandi (un palmo = 26 cm) senza misurare la pedana e la corona. L’Angelo avrebbe dovuto avere in mano la bilancia, la lancia e il demonio ai piedi. La statua doveva essere eseguita con bona pintura fina y tot daurat a gusto del vicario Cao. Lo scultore si impegnava inoltre a consegnarla perfettamente finita non oltre il 15 di ottobre dello stesso anno. Il prezzo veniva stabilito in sinquanta lliures moneda callaresa, (50 lire di moneta cagliaresa) di queste, dieci gli vengono date subito e le rimanenti il giorno che consegnerà l’immagine, a condizione che rimanga soddisfatto il vicario.
E’ datato 4 marzo 1652 l’atto nel quale Giovanni Angelo Puxeddu si impegna a realizzare il retablo di Nostra Signora del Carmine per la villa di Decimoputzu per conto di Giovanni Antioco Lixi, un privato cittadino che aveva già il juspatronatus sulla cappella nella quale doveva essere collocato il manufatto. Le dimensioni generali dell’opera sono determinate dalla cappella medesima, e comunque più grande di un palmo rispetto al retablo della Madonna del Rosario esistente nella stessa chiesa.
Salvatore Vacca della villa di Decimoputzu è il procuratore di Sant’Antonio di Padova dall’anno 1668 al 1672 e figurano pagamenti per la costruzione di una cappella di San Antonio de Padua, citata anche come chiesa. Si tratta di una chiesa o di una cappella dentro la chiesa? Vediamo quindi le informazioni successive e le note di pagamento per capire la portata della costruzione.
Il maestro Sebastiano Lai, picapedrer, con nota di scarico del 26 agosto 1669, è pagato con 15 lire per una revisione della cappella di Sant’Antonio da Padova e della cappella del Rosario.
Per la fabbrica della cappella di Sant’Antonio si arguisce un contenzioso in giudizio tra il procuratore Vacca e il maestro Antioco Carta, poiché lo stesso Vacca annota di aver retribuito lo scrivano della Curia arcivescovile di Cagliari Geronimo Sarigu con 35 lire per i relativi atti processuali. Non si conosce l’esito di tale contenzioso ma il picapredero Carta viene pagato prima con 18 lire e 16 soldi, ed infine con 105 lire, per il completamento della cappella di Sant’Antonio da Padova, nel mese di febbraio 1675.
Nel 1681 risultano pagamenti per esmaltar la Capilla mayor, la cappella della Vergine del Carmine, la cappella di San Sebastiano e la cappella di Sant’Antonio da Padova, informazione questa che ci consente di attribuire il titolo alle quattro cappelle, compresa quella della Madonna del Rosario.
Nel Settecento verranno realizzati gli interventi edilizi di modernizzazione e di addizione di ambienti paraliturgici e di ulteriori cappelle, che andranno a configurare la morfologia dell’edificio, rimasta intatta sostanzialmente sino alla seconda metà del Novecento.
Nel 1738 risultano pagamenti per un importo di 650 lire in favore di Vicente Mulas per la realizzazione di una nuova sacrestia, identificabile oggi nella quarta cappella a sinistra partendo dall’ingresso.
Negli anni 1753 e 1755 è lo stesso maestro muratore Vicente Mulas, albanil de Caller, che viene pagato in più soluzioni, por la fabrica de la Iglesia , con una spesa complessiva superiore a 1.000 lire, cifra sostanzialmente vicina al bilancio annuale della parrocchia di quegli anni. Questo ci fa capire che i lavori realizzati portano ad una sostanziale restauro e adeguamento “alla moderna” dell’edificio.
Importanti interventi edilizi nella chiesa parrocchiale vengono realizzati dal Maestro Antonio Denegri, dei quali si hanno notizie dettagliate a causa di un contenzioso giudiziario (1780-83) sorto per i lavori non eseguiti correttamente in base al capitolato d’appalto. Gli atti processuali ci consentono di conoscere con precisione i lavori affidati al Denegri e di conseguenza ricostruire la configurazione planimetrica dell’edificio alla data del 1780.
La nota dei lavori prevedeva interventi nella Sacrestia, (oggi quarta cappella a sinistra partendo dall’ingresso) in cui doveva essere riparata la finestra, la porta, il soffitto (boveda), le pareti di dentro e di fuori e tutto doveva essere poi tinteggiato (emblanqueada).
Nella Capilla de San Efisio, si dovevano riparare l’arco e le fenditure della volta e le fenditure che vanno sino al coro.
Nella Capilla del Carmen, era prevista la riparazione delle fenditure delle pareti, rifacimento degli intonaci e della tinteggiatura delle tre pareti, dentro e fuori, e del soffitto, nonché la riparazione della finestra di ferro.
Nella cappella del Rosario (prima cappella a sinistra partendo dall’ingresso) si doveva realizzare una finestra di pietra, con griglia di ferro ed imbiancare.
Nella cappella di San Francesco si doveva realizzare una finestra simile alle altre con una griglia di ferro, imbiancare a calce, e sistemare la volta (nicchia?) di sant'Antonio, e imbiancare.
Nella cappella di San Sebastiano, doveva essere rimossa la volta esistente, per realizzare una nuova volta a botte (tunda). La cappella doveva avere una finestra nella parete confinante con il cimitero ed avere un’altezza proporzionale all’arco esistente, fatta a perfezione perché non fosse un’opera sgradevole. Doveva essere coperta con tegole e canali per il deflusso dell’acqua piovana nel lato del cimitero.
I lavori prevedevano inoltre la realizzazione della nuova cappella delle Anime, utilizzando il terreno (304 palmi quadrati, corrispondenti a 20,9 mq) tra il muro del cimitero e la piazza. La cappella doveva essere con falsa volta di canne o a botte come meglio si poteva e coperta di piastrelle; la porta della cappella, già presente, doveva essere perfezionata, infine bisognava provvedere ad intonacare ed ad imbiancare.
Per eseguire tutti questi lavori si potevano utilizzare i conci di pietra che si trovavano nella piazza della chiesa, e il legname che si trovava nella cappella del Carmine, e altro materiale che si trovava nel cimitero.
Il maestro Antonio Denegri, si impegnava a realizzare tutti i suddetti interventi edilizi per seicento scudi in moneta sarda, dal valore di millecinquecento lire, nel termine di sei mesi. L’accordo prevedeva l’erogazione dell’intero importo convenuto in tre soluzioni: duecento scudi alla firma dell’atto, altri duecento a metà dell’opera ed il rimanente ad opera completata.
A sottoscrivere detto accordo con il Denegri fu il canonico prebendato Don Pasquale Manca.
Le cose non andarono però come pattuito, e ne nacque un lungo contenzioso giudiziario la cui causa fu istruita su istanza di Antonio Denegri in merito alla controversia sul pagamento.
Infatti, il canonico Don Pasquale Manca non aveva versato al Denegri i rimanenti duecento scudi ovvero la terza e ultima parte della cifra complessiva pattuita in seicento scudi, in quanto i lavori non erano stati eseguiti, a suo dire, come prevedeva il contratto. Per la mancata erogazione del saldo il canonico si avvalse dei pareri espressi nella perizia effettuate dal maestro Vincenzo Cara e successivamente dalle perizie dei muratori maestri Antonio Ignazio Carta e Pietro Antonio Marras.
Il Denegri si avvalse invece del Misuratore Regio Girolamo Massei, peraltro imparziale, il quale dopo aver visitato la parrocchia trovò tutto a puntino ed eseguito secondo il contratto vigente in questione.
Fondamentale fu la perizia del noto progettista e direttore di fabbriche Carlo Maino il quale operò per conto del canonico Manca. Il Maino riscontrò diversi difetti nei lavori eseguiti dal Denegri, tra cui delle fenditure nella cappella della Vergine del Carmine e nella cappella di San Giovanni, in particolare nella parte che guarda all’Epistola, nella parete dietro l’altare maggiore, nonché nella facciata dalla parte della cappella di sant’Antonio. Per cui ad avere ragione del contenzioso fu proprio in Canonico Manca, che riuscì a non liquidare al Denegri l’ultima rata del pagamanto di 200 scudi.Gli atti processuali su descritti consentono di una ricostruire, seppure in via ipotetica, una configurazione planimetrica dell’edificio alla data del 1780.
Sempre dell’ultimo quarto del Settecento è l’importante informazione sulle chiese in Decimoputzu riportata nei decreti di visite pastorali dell’Arcivescovo Vittorio Filippo Melano, in particolare nell’Elenco delle chiese presenti in vari villaggi della Diocesi di Cagliari. Dopo la visita del 1782 a Decimoputzu, il prelato dispone che i materiali delle chiese di San Pietro e di Santa Sofia siano applicati al Montegranatico, mentre quelli della chiesa di San Michele siano applicati alla Parrocchia.
Si evince quindi che tre chiese del villaggio, oramai profanate, vengono demolite ed i materiali utilizzati per altre costruzioni.
n particolare l’Arcivescovo Melano dà disposizioni affinché i materiali delle chiese di Santa Sofia e di San Pietro vengano applicati, ovvero utilizzati per la costruzione del Monte Granatico, di cui si aveva notizia già nelle Respuestas del 1778. Il Monte, tuttavia se pur in pieno esercizio nelle sue funzioni di deposito e prestito del grano, non possedeva ancora l’Almaser cioè un magazzino ed il grano veniva conservare nella casa del depositario Savatore Pignaddu. È altresì ipotizzabile che il Montegranatico venga realizzato proprio riadattando la chiesa di Santa Sofia, dove oggi ha sede il Banco di Sardegna.
Ulteriori lavori sulla parrocchiale di una certa consistenza sono documentati tra il 1788 e il 1789.
Il registro parrocchiale riporta dei pagamenti in favore al maestro Giuseppe Rossi per i lavori di ristrutturazione integrale della chiesa parrocchiale, in base agli accordi stipulati con atto notarile rogato dal Notaio Trudu di Villasor il 29 settembre 1788, con il quale il Rossi si obbliga, entro il primo giorno di Quaresima prossima, di restaurare la chiesa parrocchiale, eccetto la cappella della Vergine Santissima del Rosario, che non ha bisogno di restauri. I lavori consistono nel pianellare detta chiesa, cioè la navata, il presbiterio e le cappelle con pianelle bianche di pietra forte, di forma quadrata di quattro palmi e mezzo con alcune pietra azzurre. Si deve costruire la parete del cimitero di altezza di 12 o 13 palmi (12 palmi = m. 3,1482, corrispondente ad una canna di Cagliari) e a tal fine si devono portare 200 carri di pietra forte. Il maestro deve poi imbiancare la chiesa dentro e fuori, la facciata, il campanile e provvedere ad intonacare le pareti del cimitero con calce e sabbia.
Altrettanto rilevante è il pagamento il 18 luglio 1789 di 172 lire, 1 soldo e 8 reali, al maestro muratore Luigi Isola di Quartu per la realizzazione di un muro di recinzione in pietra per tutto il circuito della piazza della chiesa, che comprende il lavoro, materiale e manovali. Si tratta verosimilmente del muro di cinta della piazza che verrà denominato is Mureddas, che delimitava il sagrato, demolito negli anni Sessanta del secolo scorso.
L’11 agosto 1793 figura un’uscita di 350 lire in favore del Canonico Pasquale Manca per il nuovo retablo dell’altare maggiore. Si tratta probabilmente di un rimborso dovuto al Canonico prebendato per l’anticipazione dei costi del nuovo retablo.
Il 1795 è un anno in cui si registrano lavori importanti. Ad essere retribuito con 271 lire figura il muratore Giuseppe Rossi (a cui erano stati affidati i lavori di restauro nel 1788) nelle date del 30 agosto, 15 ottobre e 13 novembre 1795 per una serie di interventi tra i quali gli altari e l’apertura di una nuova porta; lo stesso Rossi beneficia di 75 lire il 14 novembre per una nuova finestra (rosone o luce semicircolare?) nella facciata della chiesa.
Dai pagamenti effettuati nel 1814 si evincono lavori edilizi nella parrocchia di notevole rilevanza: si tratta della realizzazione ex novo della cappella della Vergine del Carmine. I più importanti sono in favore del maestro Isola che riceve prima 1.070 lire sulla base dell’atto notarile stipulato il 16 giugno e successivamente altri 107 lire e 10 soldi.
La costruzione del nuovo campanile, sostanzialmente come lo vediamo oggi, che insiste sull’area di sedime della precedente torre, fu affidato al Maestro Antonio Camba nel 1815, sulle cui vicende costruttive si ha ampia informazione per via di una causa giudiziaria originata dal mancato pagamento dell’opera, che vide da una parte il Camba, e dall’altra gli eredi del Canonico prebendato Ignazio Deplano, committente dei lavori.
In sintesi, avendo il Camba realizzato il campanile di 92 palmi (comprese le fondamenta) anziché di 65 palmi come da contratto, chiedeva agli eredi del Canonico Deplano, che nel frattempo era deceduto, il pagamento della differenza pari a 330 scudi oltre il pattuito.
La situazione si evolse a favore del Camba in quanto nel registro della Contadoria generale della nostra parrocchia dell’anno 1817 risulta erogata una retribuzione complessiva di 2.348 lire corrispondenti a 930 scudi.
Due mesi dopo viene retribuito con 8 lire e 5 soldi il maestro Jaime Grussu e i suoi manovali per aver eseguito la scala del campanile.
Dalla metà dell’Ottocento anche in virtù dell’evolvesi della situazione politica nel quadro della conflitto e separazione tra Stato e Chiesa e all’incameramento dei beni ecclesiastici in virtù delle leggi Siccardi del 1850 e successive, l’Amministrazione comunale putzese è costretta ad assumere maggior interesse e responsabilità nei confronti dell’edificio parrocchiale. Ma i denari del nostro Comune scarseggiano e si fatica a trovare le risorse necessarie per consentire un’adeguata manutenzione con idonei interventi edilizi.
Nel registro degli anni 1878 -1918, (nel 1878 è parroco Luigi Casu, dal 1880 il parroco è Giovanni Demontis), l’amministratore è il Canonico Emanuele Frau, e fra le spese riportate, figura un’uscita modica di lire 11,50 per accomodo della facciata della chiesa nel 1883.
Nello stesso anno il Parroco Demontis, fa collocare l’orologio nel campanile; non si evince esattamente chi finanziò l’acquisto del manufatto, ma dal registro della Causa Pia degli anni 1894- 1934 risulta che il 4 ottobre 1887 vengono erogati dai fondi parrocchiali 300 lire al parroco Demontis, per l’anticipazione fatta per l’orologio al campanile, d’accordo con l’autorità comunale.Breve descrizione del monumento
La facciata, rimaneggiata agli inizi del Novecento, e in origine a terminale piatto, ha uno schema semplice, con portale rettangolare sovrastato da una luce semicircolare e conclusa da un timpano di gusto neoclassico. A sinistra si addossa a filo il campanile a canna quadrata nella base, sovrastata da cella campanaria dagli spigoli smussati e forata da monofore con archi a tutto sesto per ciascun lato e conclusa da una cupola.
A destra della facciata, nella parete corrispondente alle cappelle del lato settentrionale, nel corso dell’ultimo restauro sono stati messi in luce elementi in pietra, quali frammenti di costoloni modanati e gemma pendula con scolpita una testina alata; si tratta di materiale di spoglio proveniente da una cappella voltata a crociera demolita o modificata.
Nel prospetto settentrionale, nella parete corrispondente alla seconda cappella a sinistra partendo dall’ingresso, tra i materiali di spoglio risultano incorporati diversi frammenti riconducibili all’età romana, bizantina e medioevale. I reperti, la maggior parte dei quali già inventariati dalla Soprintendenza negli anni Cinquanta del secolo scorso, sono stati messi in luce a seguito della demolizione dell’oratorio costruito negli anni Sessanta del Novecento e oggi sono facilmente individuabili:
- una lastra in calcare nella quale sono incisi in bassorilievo quattro archetti a pieno centro;
-frammento di un pilastrino in cui entro una cornice a listello è scolpito in bassorilievo un cantaro a due anse da cui nasce una composizione floreale (secc. IX-X);
- Iscrizione medioevale (a. 1270);
- concio con archetto decorato a onde;
- concio con incavi per contenere ceramiche maiolicate;
- concio con archetto doppia ghiera (XII sec.);
- concio in cui sono incise tre orme di sandalo, con terminali ogivali, presunto indicatore di luogo di pellegrinaggio medioevale (altre incisioni di sandalo sono riportate nello stipite e destra dell’ingresso della chiesa di San Giorgio).
Ci sono poi altri conci con rosette bacellate e altri graffiti e/o incisioni di difficile interpretazione.
All’interno della chiesa, l’aula ha una copertura in legno a due spioventi, risarcita ex novo dall’ultimo restauro, mentre le cappelle sono tutte in muratura.
La prima a sinistra, partendo dall’ingresso, la cappella della Madonna del Rosario, cui si accede tramite un arco a pieno centro, è voltata a crociera e costolonata con una trama che disegna una stella a quattro punte, con cinque gemme pendule. Nella gemma centrale è scolpita in bassorilievo, entro una cornice floreale, la Madonna che con la mano sinistra tiene il rosario e con l’altra il Bambino. In ciascuna delle altre quattro gemme, anch’esse contornate da motivi fitomorfi, è scolpita una testina alata con rosette.
Cappella del Rosario (1970)
La costruzione della cappella del Rosario risale al 1629, come si evince dal documento del 23 agosto di quell’anno, relativi alla stipula dell’accordo tra i picapedrers Sebastiano Cau e Salvatore Arui da una parte, con Antioco Marongiu procuratore della chiesa parrocchiale di Decimoputzu. Questo prevedeva la realizzazione, nella stessa chiesa, di una cappella con cinque chiavi da intitolare alla Vergine del Rosario. Il modello da seguire era l’adiacente cappella di San Basilio, già esistente nella parrocchiale.
Un arco a sesto ribassato introduce alla seconda cappella a sinistra, anch’essa voltata con costoloni che scaricano su mensole e trama ombrelliforme. La gemma principale è abrasa, mentre in una gemma laterale è rappresentato in basso rilievo il simbolo JHS. Nel capitello addossato al muro perimetrale è scolpito un scudo in cui si intravedono incise delle lettere alfabetiche e la data 1552 (?)
La capilla mayor è voltata a crociera semplice e ha una sola gemma pendula alla chiave di volta, finemente decorata con motivi fitomorfi. I costoloni modanati che scaricano su mensole lavorate a traforo, aggettano sulla volta in laterizio, evidenziando con forte stacco cromatico grigio-rosso la geometrica plastica architettonica.
Le cappelle che si affiancano alla capilla mayor sono voltate a crociera semplice, mentre le prime due a destra, partendo dall’ingresso sono voltate a botte.
Oltre alla perizia tecnica, ben evidenziata nelle cappelle voltate a crociera, è altrettanto singolare l’apparato decorativo legato alla plastica architettonica, con capitelli fitomorfi, gemme pendule, mensole e stemmi: tutti gli elementi ornamentali appaino finemente scolpiti da maestranze specializzate.
Ancora oggi, a distanza di secoli, il fascino di questo straordinario apparato scultoreo-decorativo, trasmette un senso di stupore, quasi a voler ricordare e rimarcare che gli stilemi tardogotici dei nostri picapedrers locali, resistono alle innovazioni del Rinascimento, del Barocco e del Neoclassicismo, arrivando praticamente intatti sino a nostri giorni. Così come è altrettanto evidente che l’impianto dell’edificio e il suo apparato decorativo si sono conservati grazie alla carenza di risorse economiche, impedendone di fatto la demolizione e ricostruzione alla maniera “moderna”.I dipinti murari perduti
Nel 1948, a seguito dell’ampliamento della chiesa voluta da Mons. Piovella, sotto la guida del parroco don Luigi Deidda, la volta fu affrescata, o più precisamente dipinta a secco, da una giovane insegnante putzese Ione Caboni (poi Suor M. Ione) e dal pittore di Serramanna Giuseppe Carcangiu. Ione Caboni raffigurò nella volta Sant’Agnese ed il Buon Pastore, mentre il Carcangiu raffigurò l’Annunciazione e la Madonna con il Bambino a ricordo della intercessione in occasione della violenta alluvione che colpì Decimoputzu e gli altri villaggi del Campidano, il 17 novembre 1898. Poiché nulla è rimasto di queste opere pittoriche, in quanto cancellate per sempre dagli interventi di restauro degli anni 1970-72, acquisiscono valore documentario alcuni immagini fotografiche della chiesa effettuate prima dei citati lavori. Nella parete sopra l’arco d’accesso alla capilla mayor è raffigurata in alto la Madonna con il Bambino entro una nuvola bianca che si staglia dal cielo; sotto è un villaggio, o forse lo stesso paese di Decimoputzu idealizzato, che si salva dall’inondazione in virtù della Grazia concessa dalla Madonna. Nella volta della prima campata dell’aula, il Carcangiu entro decorazioni liberty rapprsenta il mistero dell’Annunciazione, con la figura ieratica dell’Arcangelo Gabriele sulla destra mentre a sinistra è Maria che inginocchiata nell’atto di ricevere il raggio di luce dello Spirito Santo, piega lievemente il capo in segno di accettazione della volontà divina.Giuseppe Carcangiu, Annunciazione (1948)
Madonna con il Bambino, S’Unda del 1898 (1948)
Gli arredi
Le fonti documentarie del Seicento, del Settecento e dell’Ottocento, attestano la ricchezza della chiesa, con numerosi arredi sacri d’argento, altari, retabli, statue e candelabri, che si conservavano sino alla metà del secolo scorso e di cui oggi si possono riscontrane un numero piuttosto limitato.
Demoliti, infatti, gli altari lignei e andati persi diverse suppellettili (come l’organo a canne, lampade, candelabri, etc.), oggi si conserva il fonte battesimale in marmi policromi in cui entro due volute e rappresentata in basso rilievo la Vergine con il Bambino (1779).
La parrocchia conserva almeno quaranta simulacri di periodi diversi (XVI-XIX sec.), posizionati prevalentemente entro nicchie ricavate nelle strutture murarie. Tra più antiche si segnalano la statua della Madonna con il Bambino dell’altare maggiore, sant’Antonio da Padova, sant’Antonio Abate, san Isidoro, san Basilio, san Francesco e Cristo Risorto.
Di particolare interesse è il simulacro della Vergine Dormiente con angioletti.
Gli argenti
La parrocchia conserva uno straordinario tesoro costituito principalmente da oggetti sacri in argento, databili tra il XVI e il XIX secolo. Alcuni hanno punzoni C.A., torretta di Genova, ed i marchi dei noti argentieri Salvador Mamely e Luigi Montaldo (BASCIU, 2016).Le campane
Nella prima cella campanaria si conservano ancora quattro campane di particolare pregio e di datazione diversa (XVII-XIX sec.) che, oltre ad assolvere alle funzioni religiose scandiscono, ancora oggi il tempo della comunità putzese.
ARCHIVI CONSULTATI
Archivio Storico Diocesano di Cagliari (ASDCA)
Archivio di Stato di Cagliari (ASCA)
Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna
Archivio parrocchiale Nostra Signora delle Grazie di Decimoputzu
Bibliografia
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